Quando tutto questo sarà finito (Silvia Longo)



Quando tutto questo sarà finito, forse:
– chi ha sofferto per l’isolamento forzato, si farà più attento alle persone che stanno sole sempre, isolate da prima dell’avvento del virus. Anziani, ammalati cronici nel corpo o nella mente, indigenti, emarginati. Chi si è sentito offeso dall’essere guardato con sospetto dai propri simili, avrà chiaro cosa provi un migrante, un disadattato, un “diverso”.
– Chi è abituato al fracasso, al vivere in corsa, al ritenersi obbligato a non fermarsi mai, avrà imparato ad apprezzare (o per lo meno a non temere) il silenzio, la quiete, una stasi che tale è solo in apparenza.
– Chi per pigrizia non si è mai davvero impegnato ad acquisire una propria autonomia, nel concreto, e ha sempre delegato, fatto affidamento su altri, avrà compreso l’utilità di sapersela cavare in tutti i frangenti del quotidiano. E si sarà reso conto di come molti dei rapporti intessuti nel tempo fossero basati sullo scambio di favori o peggio, sulla strumentalizzazione del prossimo al fine di raggiungere obiettivi personali, di soddisfare i propri bisogni. In una logica di mero utilizzo camuffato, più o meno consapevole, da sentimenti inconsistenti.
– Chi aveva consuetudine a fare delle circostanze occasioni buone per portare avanti il proprio ego, inculcando negli altri insegnamenti o verità assolute non supportate da competenza in materia, professionalità, propensione umana o altra capacità oggettivamente comprovabile, avrà visto sgretolarsi il piedistallo. Perché chi solo agisce a vantaggio della collettività ha diritto di godere dei vantaggi e del riconoscimento che dalla collettività gli giungono di conseguenza. I guru della contingenza saranno smascherati.
– Chi era uso a fare della sessualità un atto di mero consumo, costretto dalla situazione odierna a non potersi magare accostare al corpo dell’altro, avrà imparato l’importanza della relazione, quale che sia la natura e la durata del rapporto in oggetto. Che è fatta di fisicità, ma soprattutto di contatto mentale, quando non affettivo. Del sesso avrà accarezzato le infinite possibilità di sublimazione. E il rispetto per il corpo, proprio ed altrui.
– Chi durante questa emergenza avrà capito l’importanza dell’igiene del corpo, in parallelo avrà messo a fuoco l’estrema urgenza di un’igiene interiore, la chiave di tutto. Igiene del cuore, del pensiero a guidare le azioni in una relazione consapevole, con noi stessi in primis, poi con il prossimo, con la collettività. Per cui se mi è palese che lavaggi frequenti delle mani, corretto utilizzo dei dispositivi sanitari e rispetto delle misure dettate dagli enti di competenza possono ridurre il rischio del contagio corona, altrettanto chiara mi risulterà la penetrabilità delle coscienze, quale il mio impatto sull’altro e viceversa, in reciprocità. E mi riferisco a pensieri di cura o infetti, a parole profonde o di striscio, sincere o false. Ai vantaggi e ai danni che possono arrecare.
Nella certezza che azioni quali la produzione di materiali di scarto inquinamento sfruttamento all’osso delle risorse – fuori e dentro metafora – hanno una ricaduta su ciascuno, spero giungeremo a concepire un nuovo modo di entrare in contatto con noi stessi, con il prossimo, con l’ambiente fisico sociale politico e con la natura, ritrovando armonia e equilibro in ogni relazione. Smettendo la mala proiezione dell’io nei contesti.
Libero da che cosa? (Silvia Molesini)



Libero da che cosa? Che importa… Il tuo occhio deve limpidamente annunciarmi: libero per che cosa? (F. Nietzsche)
C’è chi dice che un’immagine dura molto.
Racchiude, sembra il termine migliore, in ciò che mostra un’invincibile nostalgia. E sperimenta per noi quanto non ci sembrava possibile prima di averla veduta, detto meglio, e definito, precisandone i contorni. Non ci sembrava allora visibile prima di averla veduta, e possibile e visibile…un’immagine dura il tempo, dicono, della cosa aspettata.
Ma si ripresentava? Era la traccia che la precedeva a renderla possibile? No. Pare che l’immagine durevole abbia cosmogonia non visiva; che parta da una percezione di natura più profonda, tattile? propriocettiva? La sua fissità potrebbe dipendere anche da un cuore. Duro, stabile, un rombo. Un sottofondo ininterrotto come in alcuni deserti sembra si sentano cantare le dune, a granello a granello, per l’erosione della corteccia esterna.
Quindi niente priva del sentito. E c’è un ottundimento attorno, palpabile diremo, che sospende e suoni e movimenti. Sopra i trenta gradi, sotto i quaranta. La viscosità regolata. Gli odori. Non tutti. Ma siamo andati a un periodo omeostatico dai gradienti indiscreti passato a occhi chiusi; per quanto… forse prima di un’immagine, forse, c’è un pensiero.
Allora il protopensiero. E gli attributi alla vista, ai colori. Caldo? Freddo? Una forma…morbida?? Un protopensiero avrebbe: potente l’idea, il senso, del dispiacere, del buono quando c’è, forse dell’isola, dell’assoluto stare, della variazione incapibile, del sommerso e del dondolio. Della stasi. Del buio dopo il sorprendente bagliore. Del cattivissimo, l’odore del caprone.
C’è chi dice che un’immagine dura poco.
E’ passaggio della stella di San Lorenzo davanti all’allibito osservare. Fende l’aria come un bombardamento a Bagdad, fa fumo solo dopo. E’ ripetuta indistintamente e non rivela, nell’assuefazione continua a bucare quel buco, e perciò non la senti, conquista subito tutte le soglie e quindi va proposta variandola continuamente.
Poi diventa linguaggio quando aderisce a simboli prestabiliti. Informata da un concetto arbitrario sa ripetere uno due tre quattro per via di una conta d’angoli, e arriva a pensare uno zero. Prima del tempo, non lo stabilisce. Indifferente al pensiero, lo alimenta come si decida.
Quest’immagine è liberissima. Va dove vuole, pesca dalle mille e una antropologia, s’inventa cubismi e costruttivismi e strutturalismi, fotografa qualsiasi cosa e lo rende possibile, documenta il vero attorno a sé, uomini attorcigliati a alberi, uomini cupi pensanti con la mente sul pugno, uomini legati a lacci neri trascinati da cani, uomini impiccati in serie su piazze bianche, uomini seduti in cerchio, bambine nude urlanti che corrono.
È vera. Ma viene presto dimenticata. Scompare. Problemi di fissaggio? O il tempo di sviluppo è stato troppo breve, i cristalli non sono fioriti e l’argento è rimasto nel silenzio. Beffarda, diremo, quest’immagine poco durevole, e che pur percorrendo i libri e le pellicole si trasforma in qualcos’altro.
In cosa viene trasformata dall’oblio l’immagine corta? La lingua? La legge? Il simbolo? Ogni creazione possibile, possibile?
In cianfrusaglia. D’altronde se al pensiero non viene restituito nulla, dicono, nulla che non sia solo immagine, è bene che dall’oblio venga espulso almeno un residuo, che dica, il rifiuto, che le cose ci sono state, da qualche parte, per qualcuno che forse eravamo anche noi.
* questo testo, a firma di Silvia Molesini, è tratto dal suo work in progress Nascita e morte (titolo provvisorio).
L’ipotesi del sorriso (Nerina Garofalo)



Ci sarà forse un tempo in cui sapremo.
Sorridere – di nuovo – così.
Come dimentichi, assopiti e poi ridesti,
ed affidati, sprotetti, consegnati.
Quello che attendo adesso è quel tempo.
Così profondamente umano.
Sotteso, non dichiarato, non proclamato né voluto.
Un tempo che da solo accade,
una cosa che è non detta, rivelata.
Scoperta. Disarmata, e lieve.
Inerme come ciascun sussurro
messo in questo [o in questo libro].
E sei sussurri fanno un canto
Ed un accanto—
Andiamo?

