In doppia esposizione


Uscire fuori (Nerina)

Uscire fuori.

La donna ha sempre avuto questo vizio della dimora. Intere sezioni della biblioteca rimandano vite che non escono di casa. Perché uscire, allora?

Per il desiderio feroce della bellezza dell’aria sulla pelle, l’onda marina. E la vertigine del vento fra i tronchi di montagna.

Per portare sciolti i capelli. 

Per fotografare la bellezza in mezzo ai fuochi. 

Oggi, deve mandare questo libro alle autrici che sono in viaggio con lei, la tira per le lunghe, compone e scompone l’ipotesi di ricerca e le sue risultanze, come si piegano i panni al balcone, e poi di nuovo, non convinti abbastanza del rigore angolato del bianco.

Ricorda: non c’è alcun verso che [tu] cambi le cose— 


Bigiotteria 3 euro al pezzo (Silvia)

BIGIOTTERIA 3 EURO AL PEZZO scritto in grande, musica R&B New School a volume alto. 

Non è una bancarella, ma uno stand da far impallidire Harrods. Un enorme quadrato scintillante agibile sui quattro lati e, a ogni lato, espositori disposti su diversi livelli, e una persona pronta a servirti. Sono due donne e due uomini, che da scatole cremisi estraggono bracciali collane orecchini, e li  depongono sul velluto della ribalta con movimento preciso del polso. Hanno corporatura imponente, indossano abiti vistosi ed eleganti al contempo. Sono neri, credo americani; belli come li vedi nei film, perché in America io mai stata. Le loro maniere mi affascinano, più della merce. 

Indico un bracciale, posso? domando, e l’uomo di fronte a me annuisce, ma certo che puoi, credo capisca che ho paura, lo scorso anno ogni contatto era vietato, se nei negozi toccavi un oggetto o provavi un vestito poi lo dovevano igienizzare con il vapore, se solo sfioravi qualcosa poi scattava il dovere morale di comprare, e allora lasciavi perdere, non volevi disturbare o buttare via denaro. 

Prendo il gioiello: ha diciotto pietre dure color ametista, diaspro tigrato e acciaio, un piccolo mala che sollevo all’altezza degli occhi, e il sole ne attraversa i cristalli accendendoli di luce, fiammandomi in mano. E penso sia stato mio dal primo momento, che mi abbia scelta, che si tratti di un amuleto, e sento che sono pronta. 

Che si tratti dell’ennesimo abbaglio o del lampo di un’autentica intuizione. Chissà se, come bigiotteria, questo istante che brulica di vita è solo un’imitazione dell’oro. O vita vera. 

Pago, me lo infilo al polso. Mi rimetto in cammino.


O meine liebe Mignon (Silvia Maria)

O meine liebe Mignon che te ne vai di là
e in questi locali adesso meno schiarati da te diamante
col tuo contorno corpetto tagli la superficie dura, diventate
creature della materia oscura che qui non conosciamo
in presenza di uno contrito che nel buio nuovo indossa la maschera.

Ho con me il telefonino e faccio i video alle cose che passano
lo accendo e lo muovo in modo da riprendere quello
che restituisce il gesto nel movimento dei corpi scelti
per un motivo inconfessabile e intanto il mondo si sgretola
a causa del moto a luogo: te che spacchi la vetrata il mobiletto la lastra.

Licia spostata, Licia dirompente che cresci e sbreghi i vestiti
spoglia come un qualunque naturista (che gioco sporco il tuo)
vieni comunque! posso fare a meno del jpg, preparo per noi
un ologramma cis-trans che scavalchi le metafore visuali
in una no logo malìa.

Per concerto matematico, gli infiniti cantoriani, niente sarà più come prima.
Per certo avrai soltanto quel magma mediopotente preconformato,
le bestioline delle quali non hai mai conosciuto il nome che abitano
i laghi sotterranei, sottostanti, e subdoli, sottesi, subentranti
subito. Nasceranno soltanto creaturine alate.

Per questo alluneranno. E a noi verrà raccontata la storia degli Icari
vedrai tutti gli Icari, i razzi, i LEM, gli arcangeli, i droni e
le streghe, quelle in sabba infuocato. Un popolo multitasking, volatile
spesso confuso con quello dei suicidi, forse per questioni di gravità.
Non si sa in quale antro li concepiscano.

C’è un laboratorio dentro il libro di un tedesco grande una mente
lo acquisti in tutti i negozi da cent’anni ma sembra non lo legga nessuno,
lì un cane romantico viene a trovare Fausto e passano livelli.
Se lo porta con sé nei posti lerci, vanno fino alle Madri, loro sono così facili
sembrano certe e hanno contatti e ci conoscono nel solo modo che serve.

La citrinitas occasionalmente deviata da forze non convergenti
se quel punto non poteva essere controllato da nessuno a sostituirsi
alle intelligenze complesse dalle lingue incomprensibili volere tutto qui
tradotto in verticale come un volo spiccato ad ali di paglia noi come si è
malati fino alla cellula, il linfocita a recettori PIEZO ritagliati dalla capsaicina.

Es ist una terra desolata ai confini dell’impero lì vengono
accatastati corpi come pezzi di legna una catasta di braccia di gambe
di teste una catasta di ossa di mani di braccia di ossa di gambe di pezzi
di tronco e riaccade, in buia eternità si compilano elenchi
il nome, la foto, il filo, la malattia, il foglio bagnato riflesso.



Riprendiamo (Barbara)

17:37

Riprendiamo,
tu non hai mai interrotto 
distilli le vocali andate a male, per pareggiarle con quelle disperse
nel nostro lasciarci.

Verso.

L’arco è ancora presente, ancorato al tavolino piega la conversazione.
Sono stato panico, attesa e tu?

Io ho detto alla notte di morire, di lasciare una luce accesa, sempre,
di tappezzare casa con degli odori crudeli, misti tra sangue e sperma,
non mi ha ascoltata, ha spento la luce e ho smesso di ricordare il colore
della tua pelle, e ho iniziato a toccare oggetti per trovare la giusta
temperatura, per fingere carne.

C’è un temporale nella stanza, nessuno dei due se ne accorge,
le tazze si riempiono d’acqua, due pesci boccheggiano, mi prude il ginocchio sinistro.


Non usare tra Noi la parola briciola, un testo che la contiene non è reale.

Perché siamo in questa stanza?

L’ho inventato io, è una assenza, un precipizio, una falla, non far, solo falla.

Tutto rimpicciolisce e non è improvviso, 
un gigante con le proprie mani fa una poltiglia, o
almeno tenta di comprimere le pareti e 
sento battere le mie tempie, stringe un anello
intorno alla mia testa, un solcosegno sulla fronte.

Tu vuoi che non finisca questa storia.
Rinizia.


Allora ci sei? (Maria Grazia)

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– Allora ci sei?

– Ci sono quasi

– Fa’ presto, prima che ci scopra.

– Smettila di mettermi fretta.

– Guarda che ci scopre.

– Non ci scopre.

– La zia è furba.

– La zia ormai è cieca. E sorda.

– Stupido, come fa a digitare se è cieca?

– La zia non ha mai avuto bisogno di occhi per vedere neanche nel 2079, figuriamoci ora nel 10023. E poi, a dirla tutta, in questo futuro mai avverato dove ci siamo intrufolati, sono bandite non solo le penne e i quaderni, ma anche tastiere, telefoni e pc. La zia scrive con gli occhi che non le sono mai serviti.

– Secondo me in qualche stanza della memoria ancora custodisce qualche quaderno. Impossibile che abbia distrutto tutto… Ma è una poesia?

– Sembrerebbe di sì, per la metrica, ma inizia con “caro amore ti scrivo questa lettera”. Mi mancano solo alcuni simboli e ci siamo.

– Ma se dice lettera, sarà una lettera. Ma che dice? Ma l’ha scritta oggi?

– Ma… ma… ma quante domande. 

– Ma non mi rispondi a nessuna… Ma come avrà fatto a vivere tutto questo tempo?

– A sopravvivere vorrai dire. Forse perché era già morta. Ha sempre detto di essere già morta, è dal 2009 che lo ripete. Lo ha detto la nonna.

– Quindi se era già morta non poteva morire, giusto?

– Brava testolina bacata.

– Invece di sfottermi, spicciati, archeologo di stocazzo. Mi sembri quello tanto in voga nel 2019, con quei capelli ridicoli come si chiamava? L’ho pure studiato…  Ma che era successo nel 2009, tu te lo ricordi? C’era stata una pandemia, mi sembra di averlo letto da qualche parte.

– Angela, Alberto Angela si chiamava e non aveva niente di ridicolo. E la pandemia c’è stata nel 2019.
– …..
– Che c’è adesso, perché fai quella faccia? 
– Mi sento un po’ in colpa.
– Che sentimento anacronistico. Sei strana forte. 
– No, è che penso che se in tutto questo tempo non ha aperto i suoi “quaderni” non dovremmo farlo nemmeno noi.


– Questo non è un quaderno. Ha scritto sull’orlo di una stella morta, quindi è a disposizione di tutti.
– Deve essere stata dura per lei sopravvivere a tutti, a tutto. Ma come avrà fatto?
– Una volta ho sentito mamma che parlava con la nonna, parlavano di lei, sono sicuro perché non la nominavano mai. Dicevano di un amore sbagliato, di un figlio non nato, parlavano del melograno e della jatta ianca. Dicevano cose cattive. La nonna voleva tagliare le vibrisse al gatto, come se dipendesse da lui il fatto che lei c’è, ci sia sempre stata. Lo voleva scannare e scuoiare come si faceva un milione di anni fa con i conigli, appendendoli a testa in giù, intaccando la pelle alla base delle zampe e con un gesto unico e definitivo, tirar via la pelle.
– Ma perché? Che crudeltà… Come se “stare” fosse una colpa.
– Già.. 
– …. 
– Torniamo indietro. Andiamo via.
– Come andiamo via? E la lettera da decifrare? 
– Adesso non mi va, magari torniamo in un altro tempo.
– Colpa mia ve’?
– E basta co’ sta colpa, la tua è una fissazione. Non mi va e basta.
Torniamo indietro.
– Va bene, prima però passiamo a salutarla?
– Sì… dove sarà adesso?
-Lì dove è sempre stata, nel suo vuoto temporale preferito. Sotto al melograno”


Cechov VS la Madonna (Rosamaria Caputi)

Mar Baltico. Cechov VS la Madonna
I villaggi avevano i piedi neri.
Là dove era passato Hitler 
e in ogni paese
nelle stazioni ferroviarie i monumenti 
conservavano qualche ricordo di cielo
come si fa nei presepi.
Uno di questi villaggi si chiamava Festern 
con le sue case e un Gesù bambino 
piccolo gigantesco fatto di rocce laviche e amianto.
Sul marciapiede pastori e zombie di pietra non inciampavano mai
Seguivano in file rette un pensiero virgolettato.
Forse era amore, forse era solo voglia o fame.
Pure i grossi topi del posto pensavano a un miracolo.
Prodigi di pezza che non facevano paura alle mamme.
Così si rideva sotto le bombe, mentre bruciavano le code 
con le scintille sulle rotaie di paglia.
Qualcuno lo raccontava sbalordito, qualcuno 
con le sillabe disordinate.
Ma ogni sartina cuciva le parole col suo puntocroce di nonsense.


Infatti ne parlarono a lungo (Silvia Maria)

Infatti ne parlarono a lungo. Schietta sottile hai visto l’idea insinuarsi tra le parole che scattavano.

Aveva un gonnellino a righe sulle gambe nude bianche scarpe con la cinghietta e saltellava col cane sulle scale. Parlava come fanno le bambine con la voce piccola assecondante con quell’inclinazione in battere che si sostiene appena alla fine a convincere a rabbonire

l’idea: quello che pensano gli adulti sui bambini e sui topi è falso. A loro servono piccoli. Sono mai entrati nelle loro parvenze esistenziali. I pediatri, dici? I pedagoghi? Qualche topofilo del cnr? Embrioni congelati, credimi.

Poi prende un giro largo e fa due conti: adesso l’idea calcola: certe cose non si possono dire. (Pasolini “ma mi censurerei da solo, certo, non possono essere recepite, non ci sono gli strumenti per farlo!”)

gli strumenti (ad alta voce): “tutti questi tanti filosofi per arrivare sin qua. Dove il mondo disattende e le piattaforme tengono. E vogliamo invece fare un’apologia del topo clonato, entrare nei suoi occhietti traballanti quando non ha paura perché gli han tolto il gene, aggiunto lo squalo, spostato l’aorta o spiaccicato l’ipotalamo.”

Mentre trecento milioni possono essere benevolmente spostati dalla Recherche alle ali d’Italia, questo si senza plissé. Rivoglio il mio topo. Urla. 

È il lattante di Riondino quando pensa “o dio il papa”. Urla quel pensiero poche cose svelte. Voglio parlare del topo. Logica ferrea. Grandamore.

Che non è detto che il nostro compromesso ansimante debba avere per forza una forma sola. E che cristo finirò anch’io per non riuscire a scrivere più nemmeno una pagina.

 *Questo testo di Silvia Molesini è dal suo “Nascita & Morte – titolo provvisorio”