Il rogo

Il telegiornale invita all’abbandono (Nerina)

Il telegiornale invita all’abbandono di ogni abitudine corporeo-relazionale. Inibite le presenze, le strette di mano, gli abbracci, i baci, il sesso. Si stabilisce un regime di isolamento nucleare, come cani in calore mangiamo alle ciotole in silenzio, pronti ad esuberare. Rischiamo di divenire obesi, ipertesi, cianotici e freddi se esposti al contagio. 

Astronave 1 – atterra sui siti porno nei pomeriggi isolati, nella speranza di una carezza non infetta. La sera invece, alluna fra le calde braccia dell’imbonitore cauto. E anche noi cautamente perdiamo ogni giorno di più la consapevolezza del nostro corpo esposto, sfiorato, toccato, usato. Qualcun altro, invece, nel silenzio dei condomini dalle porte serrate non può usare nemmeno il balcone per dire ab-uso. Ma noi lo capiremo solo dopo.

Astronave 2 – le strade si trasformano ridisegnate dalle file quiete, in apparenza, davanti all’unica prossimità non colpita da divieto, quella alimentare. Come in un libro di Foster Wallace il farmaco raggiunge medicando su poltrone fissate su rotaie protette. Si guarda con terrore la fila di tende che soltanto un mese prima potevamo immaginare soltanto sul confine di Chernobyl. È per quello, esorcizzando l’esorcizzabile, che navighiamo come navette impazzite fra le serie televisive, ed esausti ci abbandoniamo su divani separati come se avessimo vissuto delle lunghe giornate. 

Astronave 3 – ci manca l’aria, assumiamo lo sguardo fra impotente e assetato del soldato fermo e solo nel deserto. Stringiamo calorose videocall con sorrisi smaglianti, stupiti della nostra perizia digitale, sorpresi dalla pelle della rete e dalla sua potenza. Non ci importa più l’apparire, esibiamo pantofole, capelli incolti, pigiama party, torte multipiano, forme di pane, inganni (happy birthday to you).

Come il cane va all’osso diventiamo amici degli animali, tutti salvo i gatti, e i pipistrelli. E saremo così infinitamente sfidanti e politically correct quando andremo per primi nei ristornati cinesi a festeggiare la fine di uno dei lockdown. Ci stupiremo che i cinesi siano primi a rispettare le norme e i divieti come nessuno. Così si sfugge, si spera, al linciaggio. Non festeggiamo più nulla e festeggiamo tutto. 

Abbiamo sete di incontri, ma le labbra non arrivano all’orlo di nessun pozzo dei desideri, la deprivazione vera che soffriremo sarà quella di ritrovarci, dopo, così diversi da prima. 

I ragazzi faranno rave e toccheranno il cielo rotolando dai balconi, in numero imprecisato, comunque insostenibile. Nel quartiere in cui vivo le uniche grida che sento sono quelle delle madri. 

Madre 1 – si appende con il neonato dal balcone del primo piano per sfuggire all’aggressione della figlia che tema voglia ucciderla. La polizia interviene.

Madre 2 – emette un grido lancinante non potendo evitare il fermo immagine del film che la vede ri-vivere la caduta del figlio. Il figlio cade fino a planare sul ferro medievale della cancellata del cortile. Lei, come Romy Schneider non potrà più sopravvivere se rivive quel momento. Fermarsi al fotogramma precedente, questo è Dio. Nessuno si prende cura della madre e ne ha misericordia.

Madre 3 – Vede dal paradiso quel bellissimo figlio spirare in ospedale da solo, con la consolazione ultima di un sorriso al telefono. Nei suoi occhi azzurri è annegato il mare, quella notte. In un mondo assediato dal disagio psicologico e mentale, dall’intorpidimento degli arti, dal dolore dei cuori, non ci si prende più cura dei dolori di prima. Tutto diventa tragicamente non indispensabile. Le vite, le parole, le carezze. Credo sia stato allora che ho deciso che non avrei più potuto scrivere in versi ma soltanto fotografare.



La signorina tanto desiderata attraversa lo specchio (Silvia Maria)

La signorina tanto desiderata attraversa lo specchio
nella stanza entra una luce che non è più riflessa
la sagoma del piccolo corpo buca l’argento e togliendo
restituisce un’ombra prima impossibile così che adesso,
qui, nessuna luce offende la costruzione della scena.

Lewis prende la macchina fotografica e predispone il tempo
l’apertura focale decide quanto di lei fare entrare nello
scatto recide la linea di materia e ne prende la parte che
crede di volere mentre tutto attorno si sta disintegrando
col salto che lei fa a forare il vetro la lente l’ascia ottica. 

Alice dall’altra parte che diventa grande e smette il costume
a immaginarla nuda non riuscire lei somiglia ora a un dispetto
ma era così vasta la fantasia dei mondi che continua senza immagine
da dietro si disegna intero un proseguimento e la ragione morde
e logora chi ce l’ha. 

Nell’alogenora il viaggio che si allunga guasta le cose apparite.
Alle sicurezze acquisite mette davanti un dimenticato potere
e i mutaforme si muovono nelle acque interne e conoscono
l’indifferenziato, l’interspecie, l’interregno, l’insolito, l’inaudito
l’inutile. Non viene dato luogo a niente che non voli.

Da qui le cadute. Un documentario sugli uccelli confusi con
gli uomini condannati a tentare di volare come loro ce
ne riporta un numero discreto. Gente che spesso sapeva cantare
o equilibristi, guide alpine, ballerine, parcour: giù dalla finestra.
Non è stato ancora chiarito il meccanismo di trasmissione.

C’è una grotta sotto quella dei nidi di rondine, quelli li
prendono con difficoltà ma ci arrivano e sanno mangiarli cari,
mammiferini volanti appiccicati a viverci, anche lì vanno a sogno
li portano con sé per le ali draculine, vivono così semplice che sembra
tutto vero e hanno contatti e si conoscono nel solo modo che serve.

Nell’anello degli altri cacciati la sostanza dello sprigionamento
e alle porte che si aprono vengono agglutinati per misteri di 
placenta assimilanti nuovi uovi ed antichissimi sangui: 
le lingue meno parlate fanno l’elenco delle questioni che sapevano
trattare e quasi nessuna parola detta viene più compresa.

C’è una regione di frontiera dov’è caldo e deserto e ogni
notte muore una ragazza, l’assassinano, vengono ritrovati 
questi corpi lacerati, vengono seppelliti, si aspetta che accada
di nuovo e riaccade, per sempre, ne viene stilata la lista,
i nomi conosciuti sono scritti su una pagina appesa al filo dei panni bagnati.

“Che cosa importa dove si trova il mio corpo?”
”Tutto ciò lei lo fissò in sé come una fotografia”
”E poi, in un momento solo, successero cose di ogni genere”.*

* I tre versi sono una citazione da “Alice dentro lo specchio” di Carroll.


Riprovo (Barbara)

Riprovo.

C’era un uomo, o almeno tale da considerarlo, non dormiva mai, 
se non nelle ore in cui le cattedrali navigano, ma una cattedrale non
conosce l’acqua
fin quando non riesci a disegnarla. 

Prova.

La stai disegnando?

Lui è nella cattedrale, sento il suo velare.

Perché mi racconti questa storia? 

Perché siamo in pausa dal tè, per ricordare una distanza e riportarla nel tempo.

Fine della storia.

Riprendiamo.

Con la tua cenere, ora, alziamo un piccolo muro di cinta, per non accogliere nessun altro.

Questo incontro è un avvenimento scritto da anni su un pezzo di carta custodito da entrambi 

all’interno della nostra ultima stretta di mano, tu dirai un abbraccio, io un disabbraccio.

Come si chiama quella figura che formano due persone che non si abbracciano?

Altro.

Qui giochiamo a fare le forme,
a trovare gli incastri tra un rettangolo e una lettera,
tra un uragano e una bicilindrica,
tradire e svelare la ricetta di un impasto a lievitazione naturale,
tra una frazione e dieci sardine inscatolate,
muovendo oggetti tra noi come se fossimo sempre stati capaci di farlo,
non di esserlo.

Qui il testo ha uno stallo, alle 17:36 
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Alice VS Orlando da Honfleur a Deauville

(Rosamaria)

L’astronave vichinga prende quota senza badare alle cartografie e al meteo. Siamo stati avvertiti che il viaggio durerà il tempo necessario, ma saremo sprovvisti di mappe cortesi. Mi hanno presa su, riducendomi ad altezza  bambino e somministrandomi fumo negli occhi, per ridurre l’effetto claustrofobico. Mi lasciano soltanto la paura del buio, come una specie di abbraccio. Pochi passeggeri, tutti allacciati con minuscole cinture in ottave. Le dame a sinistra, i cavalieri a destra, tutti senz’arme in endecasillabi. Il vitto è separato equamente tra solido e fluido e ciascuno potrà scegliere, a orario da destinarsi, di cosa vorrà nutrirsi. Io ho una mela e la devo restituire. Durante il volo, abbiamo la possibilità di sognare e di pensare, ma senza farne parola con nessuno. E’ vietata ogni condivisione, come in quei teatri ancora di passaggio, quelli dove gli sguardi degli spettatori non comunicano. Possiamo, invece, cercare di sviare gli altri con discorsi d’occasione, parole plurali, insinuazioni che portino fuori strada. Alla partenza, tutti con gli occhi serrati, impressionati dall’en plein air di Boudin e la testa in alto. Qualcuno crede che, alla fine, avrà la luna.


Ti ricordi come è cominciata questa storia?

(Silvia)

“Ti ricordi com’è cominciata questa storia?”, domandi fissandomi negli occhi. Poi li abbassi, e io pure, all’unisono. Abbiamo disimparato a sostenerci (con) gli sguardi, anche se non so con precisione quando e come sia accaduto. 

“Certo che ricordo”, rispondo, “è cominciata con un viaggio. All’andata, sul treno, tutto regolare. Al ritorno, quella ragazza che si annoda la sciarpa sulla nuca, una studentessa universitaria, ho pensato, e l’aggettivo a qualificare lei, e di conseguenza la sensatezza del suo gesto, era intelligente. E, in quell’istante, qualcosa in me ha ceduto, la negazione  caparbia si è incrinata. Ma poi sono scesa dal treno, avevo altro per la testa, ai notiziari davo poco peso, e più se ne parlava più mi ingegnavo a non interessarmene”. 

“Sì, ma poi ti sei arresa”, mi provochi. Ti infastidisce tanto il silenzio? “Era l’inizio di marzo, ricordi?”, riprendi. E lasci la frase in sospeso. Vuoi che sia io a proseguire. 

“Certo che ricordo”, anche se continuiamo a sfuggirci con gli occhi, “avevamo organizzato una cena con gli amici definendola cena antivirus, e ogni scusa era buona per accorciare la distanza, e si scherzava e beveva, si minimizzava. Poi la padrona di casa ha ricevuto un sms: stanno per chiudere la Provincia di Asti, c’era scritto. Abbiamo finito alla svelta, ci siamo congedati senza saper cosa dire, senza dire ci interrogavano a vicenda sulla prossima volta. Quando, come, se”. 

“Poi ti sei stupita di te, non puoi aver dimenticato. Quando, il giorno dopo, hai guidato come chi avesse il diavolo al culo, guidavi e imprecavi, i capelli legati alla cazzo, guidavi e sudavi a ogni posto di blocco, non fermarmi non fermarmi, guidavi da forsennata, come la velocità potesse metterti in salvo, pensavi scaramanzie del tipo se mi sposto più rapida di lui, sono salva.”

Lui. Il contagio al quale non avevo creduto. Per scelta e ingenuità, per fiducia. Nella scienza, nel senso civico, nella buona sorte, nell’anacronismo di una pandemia. Roba del secolo scorso. Da medioevo, da danza macabra. Ma poi il treno della ragione è deragliato, i passeggeri sui vagoni di testa non hanno fatto in tempo a mettersi in salvo, ma se corro e corro forse…

“Sì che ricordo”, sbuffo. Vorrei chiuderla qui. Ma mi incalzi.

“Ti sei fermata al bar di fronte alla stazione, le strade – nonostante l’ora del mezzogiorno – erano deserte, i negozi chiusi. Hai domandato alla ragazza dietro il bancone:

– Posso consumare qualcosa?

– Certo che sì, ha risposto lei, ma tu hai sentito chiaro il suo terrore, così l’unico avventore è intervenuto, nemmeno il bar fosse suo. 

– La vedo spaventata…

– Beh, avrà sentito le notizie!

– Deve star tranquilla, non creda a tutto quello che dicono, e si ricordi sempre, signorina, che noi abbiamo fatto la Resistenza, siamo la Città dei Sette Assedi, noi non cadremo, abbiamo le montagne che ci proteggono, qui non entrerà niente e nessuno che noi non vogliamo.

E tu osservavi – oltre la vetrata – la fontana di epoca fascista che allude a un enorme fallo, con quelle palle di bombarda da cui si diparte il lungo faro, e pensavi al partigiano Johnny, alla sua corsa nel finale, a quel finale aperto solo in apparenza – nessuno ha scritto la sconfitta meglio di Fenoglio, vero? – hai guardato l’edificio in stile liberty della stazione e sopra essa un cielo che si annuvolava, e hai pianto la tua città, pronunciandone il nome non so quante volte, con tenerezza.

Poi sei andata da mia zia, l’hai trovata più curva, l’azzurro delle iridi più fragile che mai. L’hai obbligata a restare a casa mentre correvi al market per metterti in fondo alla coda. Sembravate bambini spaventati in attesa del castigo, testa bassa, senza potersi toccare, senza alzare gli occhi dai piedi”. 

–. È  stato in quel momento che anche noi due abbiamo imparato l’eluderci? 

“Ciascuno col proprio carrello da riempire, e l’ansia, il non saper respirare dietro le mascherine improvvisate, chi aveva quella da imbianchino, chi una bandana con dentro un salvaslip, qualcuno più abile di te se l’era cucita in fretta e furia”

respirare mille volte il proprio stesso respiro sino a sentirne l’odore, respirare anidride carbonica, i guanti di plastica che si impigliano nella cerniera della borsetta e si rompono, alcool candeggina amuchina e qualsiasi altro disinfettante spariti dagli scaffali, solo qualche flacone di Lysoform, meglio che niente, riempire il carrello, vergognarsi delle dita che tremano alla cassa 

“poi hai portato le scorte a tua zia, l’hai supplicata ancora una volta di venire a stare da te, chiamandola col soprannome che le ha inventato tuo fratello da bambino, ed è per tuo fratello che lei ha voluto restare a casa sua, perché lui abita vicino, poteva aver bisogno, e tu sei andata perché di lì a poco sarebbe scattato il coprifuoco, non sapevi se baciarla né quando l’avresti rivista, e nel viaggio di ritorno hai continuato il mantra dei nomi che ami, luoghi, persone li hai evocati tutti, riempiendoti del suono sottovoce.”

Non ti rispondo. Così torni alla carica.

“Ricordi, è iniziata così”, affermi. E alziamo gli occhi in sincronia perfetta. In un solo sguardo mi restituisci il mio viso scavato, le occhiaie, le mascelle tristi, il cedimento dei muscoli preposti al sorriso, il dolore tanto. Per chi è morto, e morto male, senza qualcuno accanto e senza ossigeno, camion di feretri mostrati ai notiziari, i fari nel buio che non dissipavano il buio dentro. Per chi è rimasto chiuso in casa, mesi di confino. Per chi ha lavorato, come me, a offrire un servizio, ed è stato difficile, per chi il lavoro lo ha perso. Per chi non ha potuto accedere a cure e servizi, per la mia visita oncologica di controllo saltata, per la corsa ai dispositivi di sicurezza introvabili, cercarli sul web come al mercato nero, settimane con la stessa mascherina e centellinare l’alcool denaturato. E tutte quelle notizie, anche contraddittorie, e la sera aspettare il presidente del consiglio alla tv, sperare che ci annunciasse il fine pena, e invece era solo l’inizio. 

“Così è iniziata”, concludi. Ma adesso basta, basta cazzate, te lo dico io com’è iniziata.

Cominciò con lo stupro del mare e il suicidio delle balene, venivano a spiaggiarsi, inequivocabili perdevano il lucore man mano che l’acqua sui corpi si asciugava, emergeva il senso: che da essere viventi diventiamo cose, elementi, materiale inerte nelle cave nelle fosse comuni di uno sterminio costante, a tratti rapidissimo – un raid – a volte lento, comunque visibile, è che si volta il volto e gli occhi guardano con la coda, giusto un guizzo, ma il cervello omette di registrare il cuore di reagire.

Continuò difatti con la chiusura dei porti e delle braccia che intrecciammo a difesa come a dire non mi riguarda, con abbandoni omissioni di soccorso e arrocchi imperfetti manovre fiscali podaliche e legislazioni del caso, e il caso volle co-incidere le carni, nel frattempo, sbranare l’altomare di chi spera, arenare le pratiche di sbarco dal sogno al reale, e non c’è niente da fare, resta solo da restare e farsi carne da mercato, mettersi all’asta schiavi – le dita in bocca a controllare i denti, le dita in culo a sentire cosa hai dentro, se porti oppio documenti o solo un male, le dita nella testa a cercar spermaceti, le dita nel gesso dei tuoi occhi sfatti.

Proseguì così, con la cultura a sfascio e i lacchè di regime a scambiarsi favori, a farti fuori se non sei dei loro, se non vuoi l’oro colato degli idoli fusi e dati in sete agli stolti, il comizio, l’oratorio, l’alta arringa dal pulpitino, la messa della festa, la messe dei raccolti con la falce, la messa al macero – oh, che tumuli di libri, incunaboli noi piccini farci carta da parati infibulati fino all’osso, niente brividi nessun fremito concesso se non paghi e sudi e sale tutto il pianto muto dei pesci, la protesta melodiosa degli uccelli, il canto cembalo dei ruscelli Scarlatti, la mia anima magnifica il dolore, si fa stuolo di sirene e lampeggianti in stato di allerta generale, tutto in me ammutinato ogni organo in rivolta mentre cerco il movimento per l’elevazione trovo solo coccio a coccio le speranze, perché io sì, ci ho creduto e ben oltre una stagione al fatto liquido dei testi, al sociale, al  poetare equo-solidale, a dirmi in pasto formato digitale, a mettermi nel flusso dell’amore pdf, le due dita di scrittura intinte in bocca, la sua spinta propulsiva dalle reni, le sue mani sui miei seni e a Caravaggio, al dipingere un reale che intuivo potenziale per librarsi su nel cielo sopra un suolo che sia casa ovunque vada.

Terra sanguina e produce nonostante, e ogni pianta e stelo d’erba ci sovrasta per statura in sentimento, se ti stendi e lasci fare, se ti taci e fai abbracciare, solo allora senti quanta compassione hanno per te quelle creature che credevi sottomesse, sono loro le padrone, sono felci selci dolci per tagliare, ma ti insegnano il decoro che hai dismesso, a decifrare i segni.

E adesso non parliamo più.


Un tempo mio  (Maria Grazia)

7 marzo 2020
Sabato

Un tempo mio.
Un tempo in cui bisogna stare in casa, evitare la gente, non baciarsi non abbracciarsi. Un tempo in cui più che mai l’etimologia di contatto e contagio è la stessa. Precauzioni sì ma con razionalità.

Intanto un’ora di sole, da sola, nel mio giardino, sotto al melograno, mi ha fatto bene. Ho rigurgiti di sogni da sistemare. Ho sognato di trovarmi in un paese che inizia con la A. Il paese è Agerola, nel sogno devo comporre un acrostico per la mia autobiografia. Anche acrostico ed autobiografia iniziano per A. La prima lettera dell’alfabeto. All’inizio era il verbo. Ci provo a fare un acrostico con la parola a.g.e.r.o.l.a. 

Aggiungo giorni essenziali ricucendo orli lacrimanti amore. 
Amputo gambe eppure rimando ogni lavoro autentico. 
Assembrare gente evitando regole orologi logiche amplessi. 
Alice gioca eppure ridere oggi la affatica. 
Potrei continuare all’infinito. È un gioco, sto giocando?
Il sole, il sogno, il mio gatto (e quanta soddisfazione mi dà l’aver riconquistato la dimensione del “mio”) mi aiutano a non prendermela per un caffè mancato. La differenza tra me e lui è tutta qui. Io che aspetto che si svegli per fare il caffè, lui che si sveglia, fa il caffè e se lo beve tutto, da solo. 
Cos’è che ci fa uguali?

11 marzo 2020
Da lunedì siamo a casa. Chi può, come può. Io no. Per i pazienti psichiatrici nulla si ferma. Il caffè, da sola, mentre scrivo poche righe sotto l’albero della mia infanzia, è diventato un rito e come tutti i riti, rassicurante.

Lui mi irrita ogni giorno di più. Però ha un gran merito, si è allontanato da  me in un modo che non me ne fa sentire la mancanza. Chi non ha cuore per me, chi non mi ha a cuore, non può mancarmi. Si è trasfigurato, si è reso irriconoscibile. Mi fa male ogni suo respiro. Non so se lo perdonerò mai fino in fondo per aver fatto di tutto affinché smettessi di amarlo.

16 marzo 2020
Vorrei potermene stare a casa anche oggi. Sarà il sangue che parla al posto mio, come nel sogno, ma era solo smalto rosso che colava come sangue sui bambini. Sarà il ciclo sì, la stanchezza, la spossatezza, ma di andare al lavoro oggi non mi va. Tutto è fermo, io no, tranne quando sono qui. Metto su una lavatrice, magari finisce per quando esco. Anche il gatto è insofferente. Ha l’otite, devo mettergli le goccine. Non vedo bene. Ho paura per i miei occhi e per i miei denti. Ho sognato di avere una moneta incastonata tra i denti, forse li digrigno troppo di notte. Il soldo tra i denti mi dà la misura del mio valore. Che significa questa cosa?

Ieri che strana la videochiamata coi miei. Avevano una gioia bambina negli occhi. Non li riconoscevo.

Io ho molto mal di pancia. Colpa dei ravioli fatti ieri. Che schifo questi biscotti. Sento musica ai balconi.

Sconclusionata io.

2 aprile  2079
In questo giardino con questo sole. 
Che bella l’ombra sul quaderno. Sembra che a scrivere sia l’ombra.
L’ombra, come archetipo, che ci (ri)scrive la vita.

 21 giugno 1848
Faccio un gioco, un altro
Un’emozione che posso sentire
Due cose che posso annusare
Tre cose che posso ascoltare
Quattro cose che posso toccare
Cinque cose che posso vedere
Mi serve, per evitare questo scollamento. Ritorno qui. Ora e qui. Nello spazio e nel tempo miei. Sono io. Sono mia. Sono viva. Sono sopravvissuta. Respiro.

37 dicembre 2989§
L’odore da cui provengo, la terra sotto le unghie. Le parole che scrivo, quelle che non dico, le parole dette male. Lo spavento nella schiena, gli aghi di pino nella gola.

17 maggio 2017
Ho sognato una farfalla che muore partorendo un’altra farfalla, più piccola ma identica.
Ho voglia di nuovo, del vento tra i capelli. Ma al contempo mi sento al sicuro solo nel mio giardino, sotto al melograno, con le rose e l’elicriso, il mirto e la lavanda. E il gatto, certo. Mi sorprendo della varietà di verde che c’è qui: quello del rosmarino non è lo stesso verde della lavanda, quello del timo non è quello del mirto, né somiglia a quello della lantana.
L’altra sera mi ha chiesto Perché sei rimasta?
Non ho saputo rispondere.

27 gennaio 2009
Una stanza vuota. Piastrelle bianche, forse verdi. Sono bianche e sono fredde. Verde è la luce del neon, una luce fredda. Da quanto tempo sono qui?
Ho gli occhi nei piedi. Sono scalza. Ho freddo, sono nuda?
Una stanza, piastrelle bianche e luce verde. Una sedia. Io sulla sedia. Sono in attesa, niente di dolce. 
Sono qui da molto tempo, da due ore, forse quattro. Da quante ore sono in questo posto? 
Conto ossessiva tutte le mattonelle, per ingannare il tempo. Quante sono? Quanto fa 17 per 25?
Mi hanno lasciata sola. Sono sola da tanto di quel tempo. Dieci minuti, venti trenta quaranta la gallina canta e non ho bisogno di arrivare a centocinquanta. Che stupida, le galline non cantano.
La porta si apre di scatto.
Una voce mi dice – Andiamo.

13 agosto 1994
Stanotte ho sognato di scendere nella cantina dei miei nonni, le foto appese ai muri degli avi defunti, il quadro che mi terrorizzava della Madonna dell’Arco, quella coi lividi in faccia a capo letto. 
Mi sono svegliata con l’umidità nella gola, il buio nella testa, i rosari sgranati nella controra dei miei otto anni come le melagrane a novembre. E poi, ancora, i galli che beccano i polpacci, i maiali da scannare il ventisei dicembre e i conigli da scuoiare per la domenica a pranzo. Le vipere con la testa a triangolo, i nidi di vespe da bruciare. Le processionarie.

30 marzo 2021
Il corpo decide al posto mio che è giunta l’ora di fermarmi. Sono caduta, di nuovo, come tante volte, come a san Lorenzo nel 1994, su via della Nocetta nel 2012, a novembre scorso e ieri. Al Ps dicono nessun osso rotto ma mi fa male tutto. Mi sento rotta io. Interrotta più che altro. Sono perennemente in caduta libera. Senza appigli.

59 aprile 22506
Stanotte ho sognato mia madre. Mi dà un coltellaccio per uccidere due conigli: quello grande, la mamma, è tutto bianco e poi ce n’è uno piccolo, il più grande tra i piccoli. Non ci riesco. Il piccolo sicuramente no, lui ha capito la situazione e con i suoi fratellini si difende come può e si chiude in un’altra gabbietta. La madre sì, riesco ad ucciderla. Le taglio la testa e penso Cosa racconterò a G.? Io, proprio io, ho ucciso il coniglio della nostra infanzia.
Poi da un albero di melograno coglievo una pera e lì ho pensato, Ecco, un fiore si è sbagliato (un verso di G.).
Uccido la madre? Il bianconiglio, il sabotatore interno? Il profeta dell’inadeguatezza? I figli si salvano, sempre si salvano. Ma a quale prezzo?
Leggo ogni cosa con un’attenzione onirica.
Il bianconiglio continua a dirmi che non c’è tempo e non c’è spazio. Non indovino mai il biscotto. Un giorno scriverò la mia autobiografia. Un’altra.

22 maggio 2000
Vorrei, una volta tanto che non fosse lui a sottrarmi parole. 
Vorrei, una volta tanto, che nei suoi abbracci ci fosse una serenità di intenti. Io non sono infinita, lo so, ma qual è il mio limite? Dove sono i miei confini? Dove poggiano i miei piedi, dov’è la cima della mia testa? Cosa ancora deve accadere per lasciar andare questo amore che non va né avanti né indietro? Che non parte e che non porta da nessuna parte e che anzi mi lascia costantemente sulla porta, senza farmi entrare. E io non ho più mani per bussare e la testa mi fa male e il mio cuore, che batte sempre più piano, non si fa più sentire. Non si può più sentire.

09 ottobre 2021
Questa mattina, dopo l’ennesima nottata di sogni, immagini storte, sono andata in bagno. Senza occhiali, nella penombra, mi sono guardata allo specchio. Una volta ho letto di un esperimento proposto da uno psicologo. Se ti guardi a lungo allo specchio, con una luce soffusa, dopo un po’ il volto si trasforma, appaiono cose, forme trasfigurate, animali. Sono stata lì un tempo indefinito. Aspettavo un cervo, un gatto, me vecchia o bambina col broncio, aspettavo i capelli da strega, un naso a becco. Nulla di tutto ciò. Ad un certo punto non ero più io a guardarmi. Ad un certo punto, come in un esercizio forse di Jodorowsky, non erano più i miei occhi a guardarmi riflessa nello specchio, ma lo sguardo riflesso nello specchio a guardare me.
Sensazione stranissima e straniante. 
Sono io ma è altro da me che mi guarda. Una forma di dissociazione che non riesco a sopportare.
In questo tempo strano, dove c’è una sproporzione spazio-temporale, siamo tutte Alici attraverso lo specchio. Io mi guardo da un tempo lontanissimo, da uno sguardo che non mi appartiene, e mi riconosco. Sono io ma non me.
È diverso dal vedere oltre, vedere alle spalle, vedere dove non abbiamo occhi, vedere chi ci guarda. 
Lo specchio permette uno sguardo obliquo, come Daniel, come Lara, come Francesco. Uno sguardo/feritoia, uno sguardo privilegiato sulle cose del mondo. Uno sguardo/ferita.
Ho ripensato ai panni neri sugli specchi quando è morta nonna G. Mi è venuta voglia di coprire lo specchio come per un lutto. 
Stamattina nello specchio ero io, mi sono vista, obliqua, ed ero morta.