Nel buco

Quando la casa è andata a fuoco (Nerina)

Quando la casa è andata a fuoco, e si è compreso che saremmo rimasti fermi, accanto alle macerie, ai tizzoni fumanti, al cero e al pane, è cominciato un lungo viaggio. Da prima delimitati dal confine esile della casa, abbiamo visto le pareti ispessirsi. I nostri corpi farsi piccoli, piccoli nelle bare, lunghi lungo le strade, introvertersi nelle sale chiuse ed esclusive ed escludenti della terapia intensiva – e poi, pian piano, farsi grandi nell’incollarsi dei corpi alle proprie soglie, alle dimore, e alle solitudini.

Ognuno solo, finanche nella propria famiglia. 

È così che è iniziato questo viaggio nell’ora di Alice. Navigando le lacrime e prendendo il tè alla finestra. Udendo, non saprei dire se da troppo lontano, solo il suono che passava da casa a casa. Intravedendo, dietro le tende tirate, una nudità inaudita. L’esasperato lamento delle nostre lacerazioni. E tutta la distanza da ciascuna cosa vera. 

Per eccesso di desiderio di verità ci siamo fatti capienti, ma nessuno, ad oggi, tiene conto della rabbia. Se non l’abitudine a una cronaca inesausta di tutti i delitti, le soppressioni, le mutilazioni e i danni che paiono provenire da un altrove. E invece, forse, abitano proprio qui, con tutti e tutte noi, in fondo al buco di Alice. Il non compleanno di ciascuno e ciascuna, l’orologiaio matto, il bianconiglio che incalza dai megafoni. 

[Ed io?] 

Io vi volevo sentire sussurrare. 
Tutte le possibili forme che assume nel fiato lo stupore. 
[Il confine fra autobiografia, narrazione e immagine, non è più importante]. 
La domanda, oggi, è cosa sia importante.
Ed anche, cosa sia possibile.
Per questo siamo qui:


Parleremo di tutto (Barbara)

Parleremo di tutto, tranne che
dei numeri decimali.

Siediti, 
sistemo le tende, 
spengo la luce,
trattengo
lo spigolo di luce nel bicchiere sul tavolo.
Quanti secondi abbiamo prima di tornare a esplodere

Controlla.

Tu costruisci un ponte dall’ingresso della stanza al tavolino,
un arco. 

Quello che ci divide è all’esatto opposto da quello che ci unisce,
un fluire di microscopici solidi all’interno dei nostri tenui corpi,
dismessi a fuoco, per paura di impoverire le nostre richieste all’altro.

Il tè.

Prepara le tue mani, forma un vaso con esse e 
che i miei occhi possano cadere tutti i giorni in questa pozzanghera;
casalinga. 

Probabilmente ometteremo le discussioni, ma non la pacificazione,
quel momento ben preciso, delineato, in neretto, quello
in cui premo con la mia voce sulle tue parole.

Ti aspettavo in anticipo, conoscendo le tue abitudini,
negli anni sono cambiate solo il numero di sigarette,
per formare con la cenere un’altra storia.

Questa è l’altra storia.

Pausa dal tè.

C’era un uomo, correva piano, zoppo e con una cicatrice sull’indice della mano destra.

Ma questo non è vero.



Alice VS Ulisse Berliner Ensemble (Rosamaria)

Ogni volta che provavo l’impresa di cercare una nuova forma si trattava di registrare all’incontrario il silenzio tra i movimenti che uno per uno comunicavano riprese bianche e nulle opere di desiderio con dimenticanze numeratori e multipli di battiti senza un sintomo o un ricordo come giraviti  che non cacciano via assoluzioni e castighi respiro e apnea contrasti che non sono mai giunti tanto da essersi tra loro somiglianti e insieme figli di una stessa madre spigolosa grassa bionda nera imbianchite le speranze e voluttuose però quanto gioverebbero sogni premuniti e monitorati prima di scivolare sulla cima di una montagna prima di cadere da un seminterrato al piano secondo dove i pavimenti sono mosaici lenti che aspettano di essere ascoltati da orecchi di femmine mezze adulte e gonfie coi rimpianti a percussione palle di vetro che dicono che domani sarai il tiranno delle tue risate e allora un giorno sono uscita per cercare le distrazioni tra una differenziata e il porta a porta suonando campanelli dove c’erano gli ombrelli dei signori incogniti loro con le ramazze spazzavano il cielo dalle voglie scorrette e dalle scorrerie tra pacchetti di sigarette e contrabbando ideali in fumo proprio il giorno 15 del mio compleanno solo l’intonaco fresco faceva luce alla semina di una conoscenza fra le altre come andare oltre il saluto delle circostanze e dei dati dei risultati di quei calcoli che si riferiscono alla nostalgia smandrappata forse falsa e agli angolini delle formiche i tuoi primi omicidi i tuoi primi attimi di suicidio rappresentati alle folle ai pochi comandamenti metallici ereditati e ti eri rivestita in fretta un dopodomani senza nemmeno averlo baciato girata di scatto per dire sono in ritardo senza voce con l’oppio nello sguardo travolta nell’anno che sarà stato il 1997 quello dei palliativi travestita con su un cardigan anglosassone sempre di quel tuo mondo in falsavita quel mondo pedonale dove grottesco significa solo stare in equilibrio a Wien sono le 17 ore che mi dividono dall’umore da teppista e da tutti i marciapiedi con i palmi delle mani aperte mi chiedono come mai non seguo le segnaletiche e perché fingo di perdermi senza masticare gli specchi dolci ho incontrato gente nuova proprio di fronte al bar che si nutre di tutte le pause che incontra e vuole leggermi la mano solo per gioco un tipo si mangia la Terra in un boccone e lo stiamo a guardare fino a notte qualcuno vomita il Modigliani quello coi capelli dritti vuole andare a dormire coi canti che parlano di neve mi sento bene con l’ombra e le sagome delle chiesette i tetti riluttanti a punta e mascherati di noir gli avrei voluto dire al Modigliani che sto bene con lui quando mi racconta di dive anni ’70 blocco il quadro un Bacon a caso e ho tanto sonno un sonno sovratono mentre mi traduco fedelmente qualcuno ha pagato il conto dei buoni sentimenti mi sposto di luogo di nascita alcune volte oltrepassato più di una qualunque purezza.


Un tempo parlavo con lo specchio (Silvia)

Un tempo parlavo con lo specchio nell’anta di destra, uno specchio a figura intera. Quello in cui mi studiavo da capo a piedi, di età in età, eretta o seduta a gambe incrociate sul tappeto, con l’accappatoio slacciato e i capelli bagnati. Melagrana. Mi cercavo, nel riflesso. Provavo a guardarmi con i miei occhi e non con quelli di altri. Domandavo, e lui rispondeva. Era in un’altra fiaba, o in un’altra vita.

Allora gli credevo. Quando a ogni mia età aggettivava la bambina, la donna, la persona. Diceva buona, suggeriva forte, dotata, audace, ribadiva intelligente, persino razionale, insisteva su sensibile, insinuava troppo, a volte in contraddizione, troppo tutto, fragile/forte, scostante/assidua, egoista/amorevole, vile/coraggiosa, bella/brutta, magra/grassa.  

Anni a parlarmi con voci disparate, di nonna o insegnante, di padre, di amica, di figlio, di amante. Ogni voce: un tono specifico. Ogni definizione: un profilo percepito, un taglio di me in contingenza, una declinazione dalla radice alla desinenza. Poi, un mattino freddo di due anni fa, per strada, accanto a un cassonetto dei rifiuti, ho trovato una valigia abbandonata. Marrone scuro, di foggia antica, scoperchiata. All’interno indumenti a tinte vivaci, tulle strass piume. E un grande specchio a lastra, da parete, adagiato sul marciapiede, incrinato in più punti. Ostruiva quasi del tutto il passaggio.

Ho pensato questi oggetti fossero appartenuti a un’attrice di avanspettacolo che, nel buttarli via, avesse abiurato la propria vocazione. Una carriera al trapassato remoto. E sebbene tutto ciò suonasse molto triste, mi sono incantata a osservare. 

Per un attimo ho fantasticato di passarci sopra, a quello specchio. Sarebbe stato come camminare sulla superficie di un lago ghiacciato. Certo avrebbe ceduto sotto il peso, e le incrinature sarebbero diventate vene grosse come quelle di certe mani, una ragnatela di fiumi immissari fino alla foce a delta. Infine avrebbe collassato in mille pezzi, come nella poesia del cuore infranto di John Donne. Avrebbe perso coesione e la mia immagine riflessa pure, un ritratto cubista di donna cubista. 

Dissuasa dal timore che i cocci avrebbero potuto incidere gli stivali e arrivare alla carne, mi sono accontentata di specchiarmi dal limitare. E nel riflesso ho visto la bambina trascorsa, fragile esposta al mondo che invecchia e a chi ci transita fugace, a chi ho incrociato nel tempo. Eppure ancora coesa, nonostante le ferite le fessure le suture. Ho provato tenerezza. Per me, per tutti, per tutto ciò che è scartato, abbandonato. Incrinato, o rotto in senso definitivo.

Ho scattato una foto per non dimenticare chi sono. E per ricordare il fatto peggiore che può accadere alle persone, e succede a molti, li vedo, hanno un’anima di corteccia, ti ci sbucci se tenti la scalata agli occhi, al cuore: perdere la tenerezza. Per se stessi, per gli altri, per ogni piccola cosa che sa di vita, come gli abiti di scena di un’attrice delusa, come i graffiti tracciati sul muro da una mano stanca di tacere. Come la foschia che ingrigiva il cielo lassù, al contrario. Vedere tutto questo, dentro e intorno, e non provare tenerezza. Qualcosa di simile a morire. Mi preferisco tagliata in mezzo da una crepa piuttosto che perfetta-mente morta, ho pensato. Ma adesso, due anni dopo, mi domando dove sia finita la mia tenerezza. Che fine abbiano fatto l’amore, la gioia di vivere, di incrociare la mia vita con quella altrui. Quale la differenza tra superficie e immersione.

Per questo stamattina ho colpito il mio volto riflesso, lo specchio in piena faccia a sfida, la dicesse una volta almeno la verità. Alla terza ripresa è andato giù. Io mi chiamava da oltre lo specchio infranto, voce bambina da scovare nell’angolo. Ho appeso l’armatura al gancio, nuda mi sono intrufolata dentro il muro, strisciando smarginando la spacca scorticandomi la pelle sugli spuntoni. Di là era scuro, ero tutta escoriata. Ero sola, ferita e sangue fresco. Mi sono trascinata come i soldati sotto il filo spinato, ci ho rimesso l’Ombra. Poi di colpo qualcosa di Bianco e Veloce che pulsava. Sembrava elegante, gentile, sincero. Sembrava un Cuore sacro da inseguire. Gli ho creduto. Nessuna scheggia gelata mi era entrata negli occhi. Sapevo ancora amare, o forse ero soltanto in un’altra favola.

Ci sono cascata in pieno. Nella sua tana. Ci sono caduta soffice, la gonna rivoltata a campanula e le mani a tenerla giù per guardarmi intorno tutto buio a parte qualche nicchia votiva di candele e icone, cadevo chiedendomi quanto dura il tempo di una caduta, e quanto male ci si può fare nell’impatto finale. 

Quando ho toccato terra, c’erano 

TRE PORTE CHE PORTAVANO 

PORTA A: Radici/Stagioni nuove che sbocciano sotto la stagione morta. E sono fiori.

PORTA B: Bellezza immensa, fragile e perfetta a deragliare. La nostra.

PORTA C: Non importa quanto dura, semplicemente sii  non è esistere, ma agire la vita.



Stanotte ti ho sognato (Maria Grazia) 

“Ora sta sognando”.

Disse Tweedledee: “E cosa pensi che stia sognando?”. 
Alice rispose: “Nessuno lo può sapere”.
“Perché? Sogna te! – esclamò Tweedledee, battendo le mani in aria con trionfo –
E se smettesse di sognarti, dove pensi che ti troveresti?”.
“Dove sono adesso, naturalmente”, disse Alice.
“Assolutamente no! Tu non saresti in nessun luogo.
Perché tu sei semplicemente una specie di cosa
nel suo sogno!” ribatté Tweedledee sprezzantemente.
(L. C. Carroll)

Stanotte ti ho sognato.
Eravamo in un posto, sembrava una delle città invisibili. Forse eravamo ad A. un posto antico, luci color nostalgia, un posto lento, dove i sentieri della memoria si tracciano seguendo il cammino dei gatti. C’è tanta gente, una folla spaventata che non sa dove andare. Aspettiamo che la folla si disperda, e restiamo noi, noi intimi. Vogliamo un tavolo rotondo, vogliamo  fare un rito, un rito arcaico, ancestrale. L. è il maestro delle cerimonie. Abbiamo il tavolo rotondo, le sedie e i sassi nello zaino. Non riusciamo a capire quanti siamo. Conto, due, quattro, sei ma, non so perché – mettiamo sette sedie. Sulla settima appari: sulla sedia in più ci sei tu ma ti vedo solo io. Sei calmo, tranquillo, sguardo sornione come quello del certosino che hai in braccio in quella foto del 2019. Ti rivolgi a me, senza parlare. Il nostro è un dialogo d’occhi.
Al risveglio ho chiamato tua moglie e mentre dicevo “e sulla sedia in più appare M.”, il quadro che mi hai regalato, piombo a rilievo su alluminio raffigurante un ramo di melograno, è caduto dalla mensola e si è accomodato sulla sedia. 
Non mi sono spaventata. Non mi spavento da tanto di quel tempo. “Avere coraggio è spaventare ciò che ci spaventa”. Me lo hai insegnato tu.